Quando ci siamo conosciuti, io stavo pensando di adottare un gatto. QuelloGiusto, per far colpo su di me, mi aveva accompagnato a prenderne uno.
Era stato un colpo di fulmine tra me e questo splendore.
Qualche mese dopo, avevamo deciso di adottare una gatta – questa volta il colpo di fulmine era stato tra lei e QuelloGiusto.
Dopo di loro, ne arrivò un terzo – e, alla morte del mio primo adorato micione, un quarto.
Avere gatti in casa è sempre stata la nostra normalità. Ce li ritrovavamo nel letto, sul tavolo, seduti in grembo, sulle spalle…insomma, la normalità di chiunque abbia uno o più felini in casa.
I nostri pelosi sono sempre stati parte integrante della nostra vita, circondati da persone che i gatti li tolleravano poco, e che non capivano che cosa ci trovassimo in quei tre. E perché li vaccinassimo, li tenessimo in casa, permettessimo loro di dormire sul nostro letto.
Per noi era normale. Per noi era pura e semplice Vita.
Poi è successo qualcosa.
Sono rimasta incinta. E sono iniziati i problemi.
Non subito, però. I problemi sono iniziati a gravidanza inoltrata. La gatta ha iniziato a non sopportare più il mio odore e a fare pipì ovunque, tranne che nella sabbietta.
Ho provato a cambiare il cibo che mangiavano. A coccolarla di più. A lavare i pavimenti con prodotti diversi, cercando di individuare la fonte del suo malessere. E lei in tutta risposta faceva i bisogni sulla porta d’ingresso, o nelle scarpe di QuelloGiusto.
Quando mi si avvicinava, mi annusava sdegnosa e se ne andava.
“E’ una fase”, ci eravamo detti. “Quando nascerà il bambino tutto questo nervosismo le passerà”.
Poi è nato MiniMe, e i primi tempi sembravano darci ragione: la gatta era tornata ad essere se stessa!
Inutile dirlo: un enorme sospiro di sollievo da parte mia, che già mi sentivo la più inesperta delle neomamme, e vivere costantemente con mia madre che mi diceva che avrei dovuto dar via i gatti mi aggiungeva stress a stress.
Purtroppo, abbiamo scoperto presto che si trattava di calma apparente. Già dopo due mesi, la gatta aveva ricominciato con i bisogni itineranti. E a lei si era aggiunto il maschio più grande. Il più piccolo, invece, giocava a prendere la rincorsa e ad atterrare a pochi cm dalla testa di MiniMe.
Ma, di nuovo, ci siamo detti “è una fase, si devono abituare al piccolo”.
Sono passati i mesi, io ormai non dormivo più. Allattavo MiniMe, mi alzavo dal letto, pulivo una pipì della gatta dalla porta e una popò del gatto dall’ingresso, disinfettavo e tornavo a letto. E di giorno, lavoravo e a casa seguivo la stessa routine.
Quando è arrivato il caldo i problemi si sono moltiplicati, perché loro hanno continuato coi bisogni itineranti, e nel condominio l’odore per le scale si sentiva tantissimo, con relative lamentele da parte dei vicini e dell’amministratore.
Inoltre MiniMe iniziava a muoversi, e il gatto più piccolo lo prendeva come bersaglio mobile per i suoi agguati.
Ma, ancora, mi ripetevo “è una fase, capirò dove è il problema, passerà e la nostra convivenza tornerà serena”.
Ecco, no.
Perché poi sono cominciati i problemi di salute.
Miei, in primis. Una depressione post partum, non riconosciuta e non curata, è esplosa in tutta la sua potenza e in crisi di panico. E il pensiero di tornare a casa e dover pulire pozze di pipì e popò di gatto, oltre a tutto il resto, mi rendeva isterica.
La cosa provocava litigi con QuelloGiusto, che mi causavano crisi di panico, che causavano litigi…Se ci ripenso ora, mi sembra di parlare di un’altra persona e di un’altra vita…una spirale viziosa di merda, che si è conclusa un sabato mattina.
Quel sabato mattina era iniziato male. La sera prima avevamo discusso, eravamo stanchi. MiniMe già gattonava e stava seguendo la gatta. Lei, ovviamente, scelse proprio quel momento per una delle sue pipì itineranti. Agguantai al volo MiniMe prima che ci volasse dentro, presi uno straccio per pulire, in tempo per sentire la voce di QuelloGiusto, aspra e ancora alterata per i litigi della sera prima, dirmi “Che schifo. Fai vivere tuo figlio in una fogna”. Detto questo, prese la porta e via.
Sono rimasta immobile. MiniMe in braccio, lo straccio per pulire nell’altra mano. Addosso un freddo gelido, una paura indicibile. Ricordo di aver preso il cellulare, di essermi accasciata a terra e chiesto a mia madre di chiamare il 118, perché mi sentivo male e non riuscivo a muovermi. Ricordo che arrivarono lei e mio padre, e mentre uno mi infilava sotto la doccia l’altra prendeva MiniMe e lo portava via. Ricordo che mentre mio padre mi caricava in macchina, QuelloGiusto stava tornando. Ricordo i suoi occhi. Ricordo che, una volta a casa dei miei, mi chiese perché non avessi chiamato lui. E ricordo nettamente il suo sguardo quando gli dissi che avevo paura che non mi avrebbe risposto. E che avevo paura di morire.
Due giorni dopo, prendemmo la soffertissima decisione di allontanare i nostri gatti.
A distanza di quasi un anno, mi rendo conto che la nostra qualità della vita è nettamente migliorata – ne è dimostrazione che i litigi quasi non esistono più, e quando esistono sono pacati e da persone adulte.
Perché oggi allora ne parlo? Perché oggi ho visto la pubblicità dell’adozione dei nostri gatti. Il che significa che sono ancora in una gabbia, da un anno. E la cosa mi ha fatto stare male. Perché la decisione di darli via è stata presa per aiutare me, ma anche loro, che vivevano male per tanti motivi che non sono riuscita a capire. E perché nella descrizione della richiesta di adozione, è specificato “sono qui NON per colpa dei gatti”, ed è vero, e ho bisogno di scriverlo e metterlo in chiaro.
Li abbiamo portati in gattile perché io avevo una brutta depressione ed ero prossima a un esaurimento nervoso. Li abbiamo portati là perché stavo male, e vivevo con l’ansia di dover pulire. Perché quando entravo in casa non potevo lasciare che mio figlio gattonasse a terra, ma prima dovevo fare una ricognizione stanza per stanza per controllare che non ci fossero pipì e popò, e quando le trovavo (sempre) dovevo chiudere mio figlio in un’altra stanza per pulire quella sporca. Da solo. A pochi mesi. E io sono una mamma ad alto contatto. Perché avevo l’angoscia che un giorno il gatto piccolo non avrebbe sbagliato mira e gli avrebbe cavato un occhio quando gli faceva gli agguati.
Per tutto questo io mi sento una persona orribile.
Perché anche se mi rendo conto che la nostra vita ora è migliore, non voglio riavere i gatti. Anche se a volte mi mancano. Anche se forse riprenderli con noi mi permetterebbe di sentirmi “una brava persona”.
Non credevo che sarei mai stata una di quelle “che abbandona”. Eppure eccomi. L’ho fatto perché stavo male io, e perché volevo che stessero meglio loro. Un senso di colpa che non mi molla. E che non so quando mi mollerà.